Un attimo di sgomento

Ascoltando l’intervista a monsignor Krzysztof Charamsa sono stato colto da un attimo di sgomento: in pochi istanti ha buttato alle ortiche la sua vita da consacrato per schierarsi nelle file di una battaglia egoista e vanitosa.
Raccogliendo commenti tra amici e sconosciuti ho capito come questo sgomento fosse assai diffuso ed ho sentito tangibile la sofferenza, lo sbigottimento, la frustrazione che ci ha avvolto di fronte ad un  fatto del genere.

Monsignor Charamsa dichiara ai giornali e alle tv:

  • Di essere omosessuale
  • Di avere un compagno
  • Che la Chiesa deve riconoscere anche due omosessuali come una famiglia

Eppure monsignor Charamsa non è l’ultimo blogger della rete come lo sono io: è un teologo di fama internazionale, una persona ritenuta seria, che su Gesù ha investito la vita, uno che dovrebbe recitare il breviario tutte le mattine, che ha studiato le sacre scritture e pure le insegna.
Com’è possibile una tale deriva? Come ha fatto un uomo ad innamorarsi di Cristo e poi a rinnegarlo completamente, tanto da apparire inequivocabilmente per quello che è adesso, un servo del demonio, che è riuscito ad introdurre la sua coda in Vaticano?

Quest’uomo ha lavorato bene per il suo nuovo signore, si è fatto logorare dentro a lungo. Il male ha rosicchiato poco a poco i valori del cattolicesimo che lo avevano portato al sacerdozio, a promettere fedeltà e obbedienza ad un Magistero che ora contesta apertamente, convinto di essere più nel giusto di tutti gli altri.

Già, tutti gli altri. Tutti gli altri chi?

Il popolo di Dio è composto da un gregge eterogeneo; tanti desideri, tante ispirazioni, tante vocazioni possono essere accolte al suo interno, tutte però devono rispettare e aderire ai dettami della Chiesa, altrimenti si mettono da sole fuori dalla porta ed è inutile gridare contro un’ingiustizia della quale gli unici colpevoli non sono altro che loro stesse.
Vogliamo davvero dimenticare chi, travolto dal messaggio di Cristo, ha abbracciato la sua vocazione, ha deciso di amarla e non l’ha più lasciata, soffrendo delle difficili scelte che tale decisione ha comportato?

Ognuno nella Chiesa, consacrato o laico, ha deciso la sua strada. Ognuno per seguirla ha rinunciato a qualcosa. Non ho certo la presunzione di fare lezione a nessuno, ma vale la pena ricordare che “decidere” è una parola che significa “tagliare via”. E siccome amare è una decisione, allora risulta evidente che chiunque ami, taglia via qualcosa pur di conservarsi l’amore che ha scelto.

Che rispetto porterebbe una Chiesa che accogliesse Charamsa con il suo compagno, alle coppie di sposi ai quali indica la fedeltà reciproca come base della solidità del matrimonio? Con quale diritto continuerebbe a negare il matrimonio agli altri sacerdoti che hanno sofferto in silenzio per una castità, che in qualche momento della vita può essere sembrata un giogo insopportabile?

La storia della Chiesa, è fatta solo di peccatori e persone che hanno inciampato nel loro cammino, laici e consacrati, che sono rimasti nel suo abbraccio materno solo perché hanno comunque ammesso che la propria debolezza era un errore e per aver invocato la Misericordia Divina. Chi si erge in modo autoreferenziale a giudice che si assolve e condanna la Chiesa è destinato ad essere messo fuori semplicemente perché è egli stesso ad andarsene.

Ognuno di noi è prima o poi chiamato a decidere cosa fare della sua vita, sono pochi coloro che si realizzano nel nulla. Tutti dobbiamo concorrere in qualche modo alla crescita e lo sviluppo umano. Prima o poi tutti dobbiamo scegliere una scuola, escludendo per conseguenza tutte le altre, o accetteremo un lavoro, lasciando cadere altre offerte.

In ambito cattolico esistono due vocazioni principali alle quali si assegnano i ruoli dominanti all’interno della Chiesa: la vita consacrata e il matrimonio. Una esclude l’altra perché entrambe stabiliscono dei legami sacramentali che si sciolgono solo con la morte e che sono incompatibili. Per lungo tempo la vita consacrata è stata considerata una vocazione privilegiata rispetto al matrimonio, ma non è così, da molto è riconosciuto il ruolo degli sposi come complementare e paritetico al ruolo degli uomini e delle donne che hanno preso in sposa la Chiesa e Cristo.

L’azione di Mons. Charamsa offende e umilia tutte le persone che hanno preso sul serio il disegno che Dio ha in mente per loro. Persone che hanno vissuto momenti di difficoltà quando hanno capito che la decisione da prendere era ardua e definitiva. Vogliamo parlare di uomini e donne, nomi e volti che conosco personalmente, laureati e con carriera, fidanzati e perfino conviventi, che alla chiamata di Gesù hanno lasciato tutto e sono oggi sacerdoti e suore fedeli? Chi dirà a loro che hanno gettato soldi, tempo e affetti per un credo calpestabile?

E alle tante coppie di sposi che hanno affrontato la malattia della loro relazione, ma hanno tenuto fede al loro giuramento e hanno ricostruito la loro casa su una roccia ancora più salda, decidendo di nuovo di amarsi, tagliando via quello che di malato c’era nella loro relazione, abbandonando cattive abitudini e non seguendo più malvagi consigli: chi dirà loro che i precetti che seguono possono diventare carta straccia solo perché ci si definisce come ci si sente volta per volta, e non come abbiamo deciso una volta per tutte?

Queste persone non vogliono giudicare Charamsa, io non lo voglio giudicare, io voglio solo che lui non ci consideri solo deboli o stupidi perché non pretendiamo tutto quello che pretende lui. Se lui non si sente più adatto a stare nell’abbraccio della chiesa, beh che se ne vada, ma non faccia credere al mondo che la Chiesa deve cambiare posizione per accoglierlo con il suo errore. E’ fin troppo evidente la falsità e la costruzione della sua mossa e ci sarebbe da domandarsi quanto sono veri certi sentimenti che escono a comando, ma sarebbe un’ingerenza nella sua sfera affettiva che non mi compete.

Mi compete invece chiedermi come sia possibile, che una persona di questa estrazione, in quella posizione, si possa svegliare alla vigilia del Sinodo della Famiglia, e gettare una secchiata di fango sulla sua vita, quella del suo compagno e su tutta la Chiesa.

L’unica cosa che mi viene in mente è che queste persone, i nostri sacerdoti in particolare, vengano troppo spesso lasciati soli a loro stessi. Nelle parrocchie, nei conventi, negli studi. Ho paura che troppo spesso diamo per scontato che la loro solitudine sia una condizione sine qua non per essere pastori e guide di un gregge rumoroso e confuso, il contatto con il quale magari potrebbe turbare la preghiera e l’ascesi richiesti dal ruolo.

In realtà al giorno d’oggi la solitudine e l’ascesi sono comunque difficili anche per il curato solo in canonica: il mondo irrompe prepotente attraverso i media, internet, i malintenzionati che suonano il campanello. E’ della settimana scorsa un servizio in cui soliti giornalisti in malafede hanno finto di essere dei profughi siriani e sono andati a mendicare nelle parrocchie e nei conventi per ottenere l’accoglienza auspicata da papa Francesco e ricevendo (giustamente) solo cortesi rifiuti e  reindirizzamenti a strutture già vocate all’assistenza degli indigenti. Nemmeno dei poveri ci si può più fidare, circondati come siamo di finte povertà materiali e furbi di ogni genere.

I sacerdoti cercano di barcamenarsi alla guida di un gregge svogliato e addormentato, in mezzo ai continui canti delle sirene che invitano alla modernizzazione dei costumi e alla liberalizzazione del concetto di peccato. E in questa difficile navigazione sono spesso soli, non confortati dal confronto costante con qualche amico o familiare, giusto per fare il punto dei pensieri o anche per avere una spalla su cui abbandonare il capo stanco nelle giornate più dure.

Forse il ruolo dei laici dovrebbe farsi più attivo non tanto (o non solo) nelle attività concrete di pastorale, quanto piuttosto nell’opera di sostegno al sacerdote, garantendo una vicinanza anche fisica assidua, un’assistenza materiale, una promiscuità di carattere familiare che non fa sentire soli, che certo a volte può incomodare, ma che spesso potrebbe salvare.

Pubblicato su La Croce del 6 ottobre 2015

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