Saremo troppi?

L’Europa è in un declino economico da cui stenta a risollevarsi, i governanti parlano di “stimolare la crescita”, ma non concretamente, intendono stimolare i consumi, non lo sviluppo. Il noto economista e banchiere italiano Ettore Gotti Tedeschi ha più volte ribadito che la crisi economica in corso e gli squilibri ambientali verificatisi negli ultimi decenni sono stati originati dalla applicazione delle teorie neomalthusiane (divulgate all’inizio in più università americane negli anni 1970-80) che hanno ispirato e “forzato” il crollo delle nascite nel mondo occidentale.

Secondo tali teorie, infatti, il mondo non potrà sostenere una popolazione in continuo amento, le risorse energetiche ed alimentari termineranno e la povertà ci colpirà tutti. Quindi è di prioritaria importanza limitare le nascite. Ma in uno scenario con indice demografico negativo, il PIL può realmente e sostenibilmente crescere solo se aumentano i consumi individuali, perciò per correggere e compensare i rischi del crollo delle economie dei paesi cosiddetti sviluppati fu adottato il “modello consumistico”.

In una società matura e con morale relativizzata (nichilista) non è stato difficile proporre all’uomo occidentale, quale vera e principale soddisfazione, quella materiale–consumistica. Ma per soddisfare l’esigenza di consumismo diffuso, si sono anche creati i presupposti di povertà e di sfruttamento dell’ambiente. Ciò è avvenuto deindustrializzando i paesi occidentali, troppo costosi produttivamente, e delocalizzando: trasferendo cioè produzioni in paesi a basso costo di mano d’opera, ancora impreparati alla tecnologia protettiva dell’ambiente.

Per far consumare di più si è anche stimolata la trasformazione del risparmio in consumo, sottraendo al sistema bancario una base monetaria per il credito e soprattutto privando le famiglie di autoprotezione. La crescita zero della popolazione, auspicata dai neomalthusiani (due figli a coppia) ha poi determinato il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione, con conseguente crescita dei costi fissi (sanità e pensioni) compensati da equivalente crescita delle tasse, che han prodotto riduzione dei redditi, degli investimenti e crescita del debito.

Per evitare il collasso conseguente nella crescita economica si è forzata sempre di più la crescita dei consumi, e sempre più a debito. Ma si è forzata anche la crescita della produzione delocalizzata, meno attenta allo sfruttamento dell’ambiente. L’origine della crisi economica, della povertà incombente e degli squilibri ambientali, sono conseguenza di questa dottrina neomalthusiana.

Come potrebbe essere ora questa stessa dottrina a risolvere i problemi che ha creato? Il rischio è che questa si preoccupi invece di far mancare il sostegno alla vera crescita economica: quello alla famiglia e alla crescita equilibrata e consapevole del numero di figli. Così mancheranno ancor più le risorse per riequilibrare le strategie produttive globali e investire in tecnologia pro-ambiente. Mancheranno sempre più le risorse per mantenere i vecchi, creare lavoro per i giovani e proteggere i più deboli.

Pur essendo le osservazioni di Gotti Tedeschi evidenze logiche, di neomalthusianesimo siamo ormai culturalmente impregnati tutti: siamo convinti che ci sia in corso una crescita incontrollata della popolazione mondiale e che questo sia o sarà causa di grande povertà per l’umanità. Quindi l’idea di combattere la crisi economica sostenendo la crescita demografica, pur essendo economicamente efficace, incontra comunque l’opposizione di molti. Ma è proprio così?

Riporto alcuni dati che possono insinuare vivaci dubbi nella teoria data per scontata: prima di tutto la densità di popolazione nel mondo non è affatto uniforme e più densità non è sinonimo di più povertà. Basti pensare al Giappone, che è uno dei paesi più fitti (336 abitanti per chilometro quadrato), e dove il tenore di vita è alto e all’Argentina (15 abitanti per chilometro quadrato), che è uno dei meno densamente popolati e dove il 30% degli abitanti vive sotto la soglia di povertà.

Inoltre non è vero che i paesi più poveri sono quelli in cui c’è un tasso di natalità maggiore, quindi non c’è connessione tra la povertà e la natalità, cioè non è che ci sono i poveri in aumento perché le famiglie povere continuano a fare tanti figli, bensì i nuovi poveri sono persone che appartenevano ai ceti medi e sono poi scivolate sotto la soglia di povertà per congiunture economiche sfavorevoli. Basti pensare che il Burkina Faso ha lo stesso rapporto degli USA tra percentuale di popolazione sotto la soglia di povertà e tasso di natalità.

I problemi attuali di povertà nel mondo sono di natura totalmente distributiva: ad esempio in Brasile esiste un individuo che possiede milioni di ettari pari alla superficie dell’Olanda. Un solo proprietario terriero che, se volesse percorrere a piedi i suoi possedimenti e conoscerne ogni metro quadro, non gli basterebbe l’intera vita per farlo. I trecento (300!) uomini più ricchi del globo possiedono da soli la metà delle ricchezze del pianeta Terra.

Il neomalthusianesimo è una teoria nata non per niente negli USA ed ha la chiara finalità di proteggere lo status quo profondamente ingiusto che vede negli USA il principale soggetto mondiale consumatore di energia e risorse nonché produttore di CO2.

Riporto di seguito un grafico elaborato da Tom Murphy, professore del dipartimento di fisica dell’università della California e membro del CASS (centro di astrofisica e scienze spaziali), che mostra la domanda di energia annuale assoluta aggiunta come risultato della crescita della popolazione, in funzione del numero di persone aggiunte ogni anno.

A fronte di poco più di 3 nuovi nati negli USA, si aggiunge una richiesta energetica doppia a quella dei 6 nuovi nati cinesi e dei 15 nuovi nati indiani. Dal grafico emerge come la partita sul consumo energetico si giochi tutta tra questi tre soli paesi: USA, Cina e India, mentre il resto del mondo rimane relegato in basso a sinistra nel grafico, mostrando il suo bassissimo impatto ambientale globale.

Un altro grafico del tutto simile al precedente è quello che mostra la CO2 annua assoluta aggiunta come risultato della crescita della popolazione, in funzione del numero di persone aggiunte all’anno:

Siccome India e Cina usano fonti energetiche “più sporche”, in termini di CO2, il divario fra gli Stati Uniti e Cina/India è minore. Gli Stati Uniti comunque restano saldamente ai vertici della classifica dei paesi più inquinanti, a fronte sempre di un numero di nuovi nati che è un quinto dell’India.

In concreto questo significa che un bambino nato negli USA costa al pianeta in termini di consumo energetico e inquinamento ambientale 10 volte di più di un bambino nato in India. E’ chiaro come l’ingiustizia distributiva sia un dato che gli USA hanno ogni interesse a tenere nascosto.

Non solo, ma in Europa, dove il neomalthusianesimo ha fatto presa in modo profondo, il tasso di crescita è 0.14, mentre negli USA è 0.77, ben 5.5 volte più alto, come a dire che l’invito a fare pochi figli è soprattutto rivolto agli altri. In particolare è dagli anni 70 che le amministrazioni statunitensi si prodigano con tutti i mezzi per abbattere la natalità nel mondo, fuori da casa propria, trovando in quest’opera anche l’insospettato appoggio di organismi internazionali che dovrebbero essere deputati a fare ben altro.

Sembrerà strano, ma la posizione più favorevole ai piani di “riduzione delle nascite” è quella dell’Unicef, nata nel 1946 con lo scopo preciso di prendersi cura dei bambini vittime di guerra dell’Europa e della Cina.

Fino all’inizio degli anni Sessanta l’Unicef ha svolto un eccellente lavoro per provvedere cibo, acqua potabile, medicinali e cure mediche ai bambini bisognosi; poi, con il risorgere delle teorie malthusiane, lo sviluppo dei contraccettivi (pillole e spirale) e la diffusione della pratica della sterilizzazione, l’Unicef è stato coinvolto nel programma di riduzione delle nascite.

Nel maggio del 1966, l’allora Direttore Generale Henry R. Labouisse sottopose all’Executive Board dell’Unicef un rapporto intitolato “Il possibile ruolo dell’UNICEF nei progetti di pianificazione familiare”.

Molte delegazioni fecero notare che con l’accettazione di tali programmi l’Unicef avrebbe tradito il suo mandato di salvare i bambini, favorendo le pratiche che non l’avrebbero mai fatti nascere. Hilaire Willot, che dirigeva la delegazione belga, sostenne che era impossibile per l’Unicef partecipare a programmi che erano diretti contro le nascite dei bambini.

Per evitare la spaccatura dell’Executive Board, la proposta fu bloccata e si decise di affrontare il problema di partecipazione ai vari programmi caso per caso. In realtà, così come accadde con l’OMS (l’organizzazione Mondiale della Sanità), bastò cambiare il termine “riduzione delle nascite” con la denominazione di programmi atti a “preservare la salute riproduttiva” di mamme e bambini, per far accettare all’Unicef la partecipazione a piani di controllo delle nascite. Nel 1970, lo stesso Labouisse raccomandò, in un rapporto sottoposto all’attenzione dell’Executive Board, di “autorizzare l’Unicef a includere contraccettivi nei programmi di aiuto richiesti dai governi”.

I dati parlano chiaro. Nel 1966 l’Unicef spese 700.000 dollari per programmi di pianificazione familiare. Nel 1971, 2,4 milioni di dollari e nel 1973, 4,2 milioni di dollari per gli stessi scopi in 30 paesi, ovviamente proprio quelli più poveri.

Nel 1987 alla Conferenza Internazionale per “una salute migliore per donne e bambini attraverso i piani di pianificazione familiare”, tenuta a Nairobi in Kenya, l’Unicef sostenne apertamente l’aborto come “servizio legale, di buona qualità che dovrebbe essere accessibile a tutte le donne”. Nel 1992 l’Unicef fece pressioni per praticare l’aborto in paesi dove questo era illegale. Il 17 aprile del 1990 mons. Renato Martino, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l‘ONU, parlò all’Executive Board dell’Unicef dicendo: “La Santa Sede guarda con grande allarme le ripetute proposte fatte da agenzie delle Nazioni Unite, fondate per salvaguardare la salute e la vita dei bambini, che invece sono coinvolte in progetti di distruzione della vita umana, al punto che l’Unicef è diventata una sostenitrice dell’aborto in paesi dove le legislazioni vietano l’interruzione di gravidanza. La Santa Sede si oppone fermamente a queste proposte non solo dal punto di vista morale, ma anche perché questo implica un’inaccettabile deviazione dallo statuto di fondazione dell’Unicef, un organismo nato in favore dei bambini”. In base a questa controversia e alla reiterata partecipazione dell’Unicef a programmi di riduzione delle nascite, la Santa Sede ritirò nel 1996 il suo simbolico contributo annuale all’Unicef (2.000 dollari) e da allora ha tenuto un atteggiamento fortemente critico nei suoi confronti.

Il mensile del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), Mondo e Missione, ha recentemente rivelato un altro documento a firma di Kissinger del 1974; Kissinger allora presiedeva il Consiglio di Sicurezza degli Stati Uniti e Bush era direttore della CIA. Si tratta di un memorandum segreto, intitolato National Security Study Memorandum 2000, contenente direttive da applicare in tredici Paesi del Terzo Mondo e indirizzato a poche persone (tra le quali il direttore della CIA). I tredici Paesi in questione erano l’India, il Bangladesh, il Pakistan, la Nigeria, il Messico, le Filippine, la Thailandia, la Turchia, l’Etiopia, la Colombia e il Brasile. Questo memorandum era incentrato sulla necessità per gli Stati Uniti di modificare entro il Duemila i livelli di fertilità dei suddetti tredici Paesi, i quali, a causa del rapido aumento demografico, avrebbero potuto, in un futuro non troppo lontano conseguire un crescente ruolo politico e strategico. In soldoni, c’era da aspettarsi che la lievitazione della popolazione avrebbe spinto tali Paesi a rialzare il prezzo delle esportazioni delle materie prime da essi prodotte, compromettendo seriamente gli interessi degli Stati Uniti.

I documenti e i fatti ci dicono che il malthusianesimo non è una teoria scientifica nata dall’osservazione dei fenomeni demografici e sociologici mondiali, bensì una ideologia studiata a tavolino come strumento per mantenere un egemonico controllo economico. E tale malsana ideologia sta così profondamente permeando la nostra cultura da averne di fatto decretato il declino in modo forse ormai irreversibile. Come può sostenersi una cultura con un tasso di natalità sottozero?

C’è chi sostiene che la ridistribuzione della popolazione mediante i flussi migratori sia la soluzione per riequilibrare i tassi demografici troppo bassi dei paesi più industrializzati, ed in parte è vero ed è già così: faccio però notare che in un anno i flussi migratori mondiali si aggirano intorno ai 5 milioni e mezzo di individui, di cui giungono in Europa o Nord America solo 2 milioni e mezzo, che corrispondono a non più dello 0.2% della popolazione di tali continenti.

Considerando che in Nord America il netto nati-morti rappresenta nell’anno lo 0.7% della popolazione e in Europa il -0.04% (ci sono più morti che nati quindi), si vede bene come uno 0.2% di immigrazione rappresenti per i due blocchi continentali un impatto culturale radicalmente diverso: l’Europa è destinata a scomparire nella sua identità di culture, tradizioni, fede e usi e costumi, sotto la spinta della nuova popolazione giovane che giunge da altri continenti, motivata a farsi posto nella società a discapito di una vecchia popolazione svogliata e in declino. Se a questo si aggiunge anche il fatto che proprio gli immigrati sono coloro che fanno più figli, risulta matematicamente evidente come una tale politica decreterà in un paio di decenni il tramonto dell’Europa come la conosciamo ora. Se non fosse altro per puro protezionismo, quindi, i leader europei non dovrebbero affidare il riequilibrio demografico all’immigrazione, ma sostenere al proprio interno le nascite con politiche di aiuto alle famiglie, e anche in fretta, prima che a beneficiare di tali incentivi restino solo gli immigrati.

Naturalmente questo discorso equivale a dipingere uno scenario fosco solo per coloro che ritengono che valga la pena preservare la cultura europea: a priori, non saprei dare un giudizio in tal senso. Se per cultura europea intendiamo il valore dato alla vita umana, la bellissima carta dei diritti dell’uomo, la carta dei diritti del fanciullo, la democrazia intesa nel suo significato teorico di principio di autodeterminazione dei popoli declinato attraverso strumenti di consultazione a suffragio universale, allora sì, direi che vale la pena non solo preservare, ma anche esportare tali aspetti. Se invece intendiamo il consumismo, il malthusianesimo, l’ambientalismo, l’animalismo, il genderismo, il capitalismo e il sessualismo, beh allora non ho nessun rimorso a vederli tramontare sotto la scure dell’indignazione di culture altrui. Sicuramente dietro al fenomeno delle migrazioni di popoli si nascondono insidie e opportunità, che andranno colte momento per momento, senza pregiudizi ma anche senza ingenuità.

C’è anche chi paventa il tramonto del cristianesimo insieme al tramonto dell’Europa, ma a questo non credo molto: le religioni sono senz’altro legate agli aspetti culturali dei Paesi in cui sono radicate (vedi concetto dell’inculturazione), ma è vero più spesso che sono le religioni stesse a modificare i costumi e le mentalità e non viceversa. Così è stato nella storia, quando i primi cristiani si sono inseriti come un piccolo spillo nell’impero romano e in pochi secoli hanno plasmato una nuova società.

Ma tornando ai neomalthusiani e alla loro convinzione che un giorno saremo troppi, mi restano da affrontare due aspetti: il prevedibile (e imprevedibile) progresso tecnologico e scientifico e la realizzazione umana.

Da cosa sarebbe determinato il limite strutturale della terra a fornire risorse ai suoi abitanti? L’uomo è già oggi in grado di ottenere energia da fonti rinnovabili, quindi in linea di principio la quantità di petrolio, gas o carbone non rappresenta un limite alla crescita umana, anzi, è auspicabile che in tempi rapidi si abbandoni del tutto il loro sfruttamento, a tutto vantaggio della salute dell’ambiente. Quindi l’energia pulita ed infinita per l’uomo del futuro non è un’utopia.

Le risorse del sottosuolo, come minerali e metalli, non sono infinite, ma disponiamo delle tecnologie necessarie ad attivare un riciclo efficacie ed efficiente di moltissimi materiali, per cui anche questo limite è assai discutibile.

La disponibilità di cibo, di natura vegetale in primis, è certamente legata all’estensione della terra coltivabile a disposizione, ma già esistono esperimenti ben riusciti di coltivazioni verticali su palazzi. E’ stata presentata proprio all’EXPO di Milano la prima Vertical Farm italiana. Realizzata dall’ENEA, l’Agenzia per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, è una serra verticale alta quasi 5 metri nella quale si sperimenta l’agricoltura del futuro, ovvero l’agricoltura 3.0: zero pesticidi, zero km, zero consumo di suolo. Le piante sono coltivate su più strati, in cubetti di torba pressata immersi in acqua con soluzioni nutritive a riciclo continuo (sistema idroponico), l’illuminazione è con LED ad alta efficienza che riproducono il ciclo della fotosintesi clorofilliana. La produzione è praticamente doppia rispetto alle colture tradizionali: per l’insalata, ad esempio, si passa da 6 a 14 cicli di raccolta/anno per ogni piano, con un risparmio del 95% di acqua (2 soli litri per un 1kg di lattuga contro i 40-45 litri/kg in un campo ‘tradizionale’).

La Vertical Farm è l’emblema delle tecnologie per l’agricoltura del futuro, alle quali si lavora nei nove Centri ENEA sul territorio nazionale: prodotti, servizi, processi concepiti per le imprese del settore e raccolti nell’Atlante dell’innovazione tecnologica, una sorta di ‘catalogo’ online (www.enea.it) con oltre 500 voci in diversi settori. E questo per quanto riguarda la sola piccola Italia.

Quindi è evidente come la ricerca in campo agricolo non sia affatto al suo punto di arrivo e il limite legato alle terre coltivabili appare per lo meno allarmistico, sicuramente non è possibile prevedere quando arriveremo a tale limite, né se ci arriveremo mai. In ogni caso il pessimismo neomalthusiano, di natura sessantottina, appare più obsoleto del mio ottimismo del 2015, basato sull’osservazione dei progressi tecnologici degli ultimi anni. Insomma, il catastrofismo malthusiano non ha più ragion d’essere dell’ottimismo nascista, nella peggiore delle ipotesi si tratta di due visioni filosofiche (non scientifiche) del futuro, degne della stessa dignità d’essere.

Inoltre non entro nel capitolo sprechi e obesità della popolazione dei paesi ricchi, ma ci sarebbe molto da dire sul calcolo dei fabbisogni medi previsti per la popolazione, quando questi dati vengono forniti da civiltà imbolsite e gravemente sovrappeso, abituate ad un consumismo, anche a tavola, assurdo e dannoso alla loro stessa salute, nonché a sprechi alimentari vergognosi.

Resta da approfondire l’aspetto che più mi sta a cuore, quello che maggiormente mi fa propendere per l’assoluta inconsistenza e falsità del modello malthusiano della società. Parto dall’uomo e da ciò che è, dentro il suo cuore. Un genitore, padre o madre di 3, 4, 5 o più figli si sente di dire di aver partorito troppi figli? Si sente di dire che la propria realizzazione personale, la propria felicità sarebbe stata più elevata se avesse rinunciato a qualche figlio? Mi è capitato di sentire da qualche persona anziana, vissuta ai tempi della guerra, con 10/ 12 figli, che sì, così tanti erano troppi, che è stato troppo faticoso, che c’era cibo a fatica per tutti, vestiti a mala pena, preoccupazioni a non finire. Ma non mi è mai capitato di sentire ultimamente, in questa nostra società tutto sommato opulenta (anche se siamo formalmente in crisi economica) genitori di famiglie numerose fare simili affermazioni. Più spesso ho raccolto le lamentele di chi, di fronte al figlio unico, notava come un solo figlio fosse davvero poco, sia per il genitore e il suo bisogno di amare ed accogliere, sia per il bambino, che cresceva annoiato e solo, affamato di compagnia di coetanei, invidioso delle famiglie numerose come di un paese dei balocchi.

Guardo anche a me, madre di tre figli, e dico che no, tre non sono troppi, che ce ne starebbero anche altri, nella mia casa, alla mia tavola e soprattutto nel mio cuore. Dico anche con rammarico e pentimento, di non averne cercati di più in parte per questa paura del “siamo troppi” respirata in ogni dove, da me e dalle persone che mi stanno intorno e che non avrebbero mancato di criticarmi in modo più o meno esplicito per la scelta eventuale di dare vita ad una famiglia ben più numerosa.

Quindi, se guardo a come è fatto l’uomo, dico con certezza che non è umano un modello di convivenza che metta un limite alle nascite, mediante mezzi coercitivi, legislativi o semplicemente di pressione culturale. Dico che il “crescete e moltiplicatevi” della Genesi rappresenta un bisogno insopprimibile, vero ed autentico dell’umanità, un invito che rende l’uomo realizzato e felice. E dico anche che non ci sono evidenze scientifiche per cui tale bisogno non possa realizzarsi per ciascuna coppia di questa terra.

Basterebbe davvero poco per dare una svolta al mondo: incentivi alle nascite e alle famiglie e diffusione di una nuova mentalità che sostenga le naturali istanze a favore della vita che l’uomo ha nel proprio cuore, e la crisi economica si volatilizzerebbe, l’ottimismo travolgerebbe i popoli. Siamo andati sulla luna, sembra che tra qualche anno andremo pure su Marte, eppure crediamo agli spauracchi di quattro potenti seduti in poltrona, che hanno come unico obiettivo quello di non perdere i propri privilegi. Umanità, sveglia!

Trillian Written by:

Trillian è una giovane donna e una brillante astrofisica che Arthur Dent non riesce ad "abbordare" ad un party in un appartamento ad Islington. Arthur era sufficientemente certo che si trattasse di una giovane donna, ma all'epoca era totalmente ignaro delle sue nozioni accademiche. Trillian da l'impressione di essere timida e titubante e le fa piacere che chi le sta intorno lo creda, ma in fondo ha un profondo desiderio di fare qualcosa che salvi la galassia.

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