L’urgenza della solidarietà

Tra le tante dimensioni che entrano in gioco quando si tratta di aiutare qualcuno in difficoltà c’è quella del denaro. Prosaica, eppure più simbolica di una poesia a ben guardare. Perché c’è un motivo se privarcene è tanto difficile per tutti noi.

Quando qualcuno manifesta una difficoltà, a volte anche solo per sfogarsi un po’, è facile che ci scatti dentro automatico il desiderio di cercare una possibile soluzione al problema dell’altro o a parte di esso.

Dietro questo moto istintivo si nascondono tante motivazioni, non tutte nobili ovviamente: spesso siamo molto dipendenti dalla stima altrui e poter risolvere un problema a qualcuno, soprattutto se complicato e impegnativo, alimenta il nostro orgoglio. Altre volte, invece, è l’affetto che proviamo verso chi ci sta di fronte a spingerci a prodigarci per lui. Più difficile è farsi coinvolgere emotivamente dalle disgrazie di uno sconosciuto.

Cruciale è il fatto che quasi sempre le necessità altrui hanno bisogno di una soluzione urgente e quindi la solidarietà con il prossimo, nel senso di atteggiamento di benevolenza e comprensione, deve suscitare in noi una risposta celere. Per questo la predisposizione istintiva pesa spesso più di una ponderata riflessione.

Ma come si può essere solidali con il prossimo?

Quando le difficoltà che ci vengono manifestate sono di natura umana e psicologica, come un sentimento di sconforto o tristezza, l’unico aiuto che possiamo offrire è la vicinanza, a volte anche la condivisione della propria esperienza. Più che altro, però, in questi casi serve il dono del proprio tempo: ci vuole la pazienza e l’umiltà di ascoltare, mettendo in un cantuccio del proprio cervello le mille attività che si stanno portando avanti e cambiare la scala delle priorità al servizio della nuova emergenza umana che abbiamo davanti.

Quando le difficoltà sono invece pratiche, e magari riguardano un settore in cui siamo competenti, ecco che l’empatia è molto meno automatica: la necessità altrui ci interpella da vicino, e sappiamo di avere le risorse per portare un valido contributo al suo soddisfacimento, ma non è detto che vogliamo farlo. Infatti la prima volta che qualcuno ci chiede qualcosa perché di noi si fida, ci sentiamo inorgogliti da ciò e ci prodighiamo con timore di tradire le aspettative ma anche con piacere. Ma dopo un po’ che la storia si ripete, cominciamo a chiederci perché dovremmo offrire il nostro aiuto, anzi, i nostri servigi (ecco qui il cambio di prospettiva) senza un contraccambio, sempre e comunque.

Se poi, come succede spesso, quello che servirebbe sono soldi e/o lavoro, allora siamo assaliti dal panico: sembra che siamo tutti poveri in canna quando si tratta di aprire il portafogli. In questi casi la solidarietà richiesta viene respinta al mittente in tempi brevissimi o rimandata ai piani alti, alle istituzioni che dovrebbero fare, agli assistenti sociali, alle strutture assistenziali pubbliche e private.

Il motivo di tale istintiva durezza è che noi sentiamo che il denaro che abbiamo ce lo siamo guadagnato e che esso è in qualche modo la misura del nostro valore. Al di là del fatto che disponiamo o meno di un surplus elargibile, donare soldi è come regalare una coppa vinta ad una gara. Forse noi potremmo anche privarcene, ma l’altro che la riceve non se la merita. Diventa un discorso di giustizia: bisogna mettere l’altro in condizione di guadagnarselo, serve un intervento strutturale (non da parte nostra) per eliminare l’ingiustizia sociale e permettere ad ogni soggetto di ritrovare la propria dignità nell’autonomia di sostentarsi da solo. E’ il principio della solidarietà sociale che va declinato dalle istituzioni.

Tutto vero. Ma le risorse personali, come quelle dello stato, sono limitate e il problema della giustizia sociale è un problema di equità della distribuzione. Qualunque sia il criterio assunto, resta il fatto che la coperta è corta e che per dare qualcosa a qualcuno, a qualcun altro bisogna togliere. Io sono disposta a farmi togliere? In linea di principio sì, soprattutto se la base da cui partire per stabilire il criterio su cui costruire la solidarietà sociale è la dignità di ogni individuo in quanto appartenente al genere umano. Mi sembra invece che, nella moderna società del capitale (soprattutto finanziario), si parli molto solo di denaro: basti pensare che la Corte Costituzionale ha annullato il blocco delle indicizzazioni per le pensioni sopra una certa soglia, perché nessuno protesta quando c’è da prendere su, ma quando si tratta di restituire, invece, c’è la ressa ad appellarsi agli articoli della costituzione per annullare le leggi. La verità è che conta solo il denaro: molto ho pagato, molto voglio ricevere.

Non vorrei dire una cosa completamente fuori da ogni logica economica, ma se uno ha guadagnato stipendi da favola durante la sua vita lavorativa, magari due soldi li ha anche messi da parte e non vedo perché debba avere una pensione stratosferica; chi invece è sopravvissuto a stento fino ai 65 anni, sarà condannato a faticare ancora di più con la pensione minima. Certo ha versato molto meno del ricco, ma dietro alle disgrazie economiche della gente non c’è quasi mai una cattiva volontà o una colpa da punire, ma solo l’avversità della vita.

Il dio della nostra società è il denaro, l’unica cosa che conta, la misura del nostro valore. L’uomo non è più al centro delle leggi, ogni articolo viene piegato alle logiche economiche, dimenticando che la nostra costituzione è stata scritta per i cittadini, per la loro tutela come esseri umani e non come contribuenti e consumatori. I diritti e i doveri sono solo formule per ottenere soldi e pagare tasse. In questo modo la dignità degli individui che sono economicamente irrilevanti viene calpestata dalle istituzioni e anche da tutti noi, quando pensiamo di delegare allo stato l’esercizio esclusivo della solidarietà sociale e poi votiamo chi fa dell’egoismo il proprio programma politico.

Apparteniamo alla grande famiglia umana, il nostro valore va al di là del nostro successo economico. Cerchiamo di non disumanizzarci, di non perdere di vista l’uomo che abbiamo di fronte, nelle sue necessità anche scomode e importune. Le risposte da dare sono su più livelli e non le possiamo sempre delegare ad altri, qualcosa tocca anche a noi direttamente, soprattutto quando gli interventi sono urgenti. Perché va bene insegnare a pescare, ma se uno ha fame, prima di tutto, è il caso di dargli da mangiare.

Pubblicato su La Croce del 21 maggio 2015

Trillian Written by:

Trillian è una giovane donna e una brillante astrofisica che Arthur Dent non riesce ad "abbordare" ad un party in un appartamento ad Islington. Arthur era sufficientemente certo che si trattasse di una giovane donna, ma all'epoca era totalmente ignaro delle sue nozioni accademiche. Trillian da l'impressione di essere timida e titubante e le fa piacere che chi le sta intorno lo creda, ma in fondo ha un profondo desiderio di fare qualcosa che salvi la galassia.

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