Lo strano caso dell’Uganda

Il sentire comune è che l’AIDS sia qualcosa che appartiene al passato. Se parlo di AIDS (e prima di scrivere questo articolo, l’ho fatto), la gente corre con la memoria ad un orribile spot della fine degli anni ottanta, dove una righina viola passava da una persona all’altra.

In realtà l’AIDS è una condizione, alla quale si può passare se si contrae il virus dell’HIV e che oggi è compagna di vita di più di trenta milioni di persone. Inutile andare a cercare tante statistiche, è risaputo che il continente con la maggiore quantità di persone malate è l’Africa ed è arcinoto che è così perché la Chiesa, nella persona del Papa, da Paolo VI in poi, ha intimato agli africani di non usare il preservativo, presidio sanitario fondamentale nella lotta alla diffusione del virus.

Perché lo abbia fatto è ovvio, il preservativo è IL male. Come li abbia convinti è un po’ più fumoso; è necessario tirare fuori parole come Opus Dei e IOR per sfamare il retropensiero complottista che si deve riempire la bocca di minacce e giochetti finanziari. Giochetti di dubbio vantaggio, visto che ogni parrocchia dell’occidente sa che in Africa, i soldi e le merci, si mandano, non si ricevono.

Ora, andare a dire che queste sono bieche menzogne, montate ad arte dagli antagonisti della Chiesa cattolica, significa andare a rimbalzare contro il muro delle notizie “vere perché lo dicono tutti”. Un muro subdolo e gommoso che ogni volta che viene attaccato reagisce con la stessa forza dell’attacco, in direzione uguale e contraria. Anzi, la direzione non è neanche sempre la stessa, poiché è facile vedere le nostre bordate partire per tangenti imprevedibili che raggiungono lidi oltre l’orizzonte.
Mentre ci si prodiga a spiegare che nei paesi più colpiti da questa pandemia, quasi nessuno si interessa al Papa, poiché sono musulmani, protestanti o tribali, capita che il focus venga spostato sulle crociate o sulla santa inquisizione. In questo modo è ovvio che non si riesce mai a dare una forma conclusiva ad una discussione, perciò ogni scontro termina con un abbandono dando la corretta sensazione di non aver concluso granché.

Oltre questo muro di gomma, la questione resta grave e per lo più irrisolta. Lo scontro ideologico sulle modalità di contenimento di una pandemia a trasmissione sessuale, per la quale ancora oggi non c’è cura, lascia sul campo due milioni di morti ogni anno.

Eppure ci sono speranze per il futuro: lo strano caso dell’Uganda è quella cosa curiosa e apparentemente indescrivibile che è accaduta nel piccolo stato centroafricano quando il presidente Yoweri Museveni ha deciso di applicare un protocollo particolare di lotta all’AIDS, un protocollo multisettoriale che oltre ai presidi sanitari puntava molto sull’informazione e sull’educazione sessuale/affettiva della popolazione.

In soldoni, negli anni ’90, quando in Uganda l’aspettativa di vita era di soli 45 anni, l’amministrazione puntò a ristrutturare diversi settori della società, dalla sanità all’istruzione, per combattere l’AIDS.
In tutto il continente africano, migliaia di organizzazioni più o meno umanitarie, si occupavano di informare, monitorare, catalogare, conteggiare, esaminare, studiare e fare statistiche.
In tutto il mondo decine di organismi nascevano con l’obiettivo di fermare quella che verrà chiamata la “peste moderna” e addirittura “la vendetta di Dio”.

Un decennio dopo, mentre tutto il mondo stava facendo i conti con una politica sanitaria e sociale fallimentare, incentrata sugli ospedali, le diagnosi, la ricerca (inconcludente) di una cura e l’idea che il profilattico fosse la vera soluzione al problema, in Uganda si evidenziava una netta inversione di tendenza, con la vita media che iniziava ad allungare ed il numero di contagi che calava.

E’ automatico chiedersi che cosa sia accaduto di diverso in Uganda in quegli anni e la risposta è semplice, si trova anche su wikipedia, e parla di un alfabeto della lotta all’AIDS. Un alfabeto che nelle prime lettere trova la quadratura del cerchio: Abstinence, Be faithful, Condom. Tradotto: astinenza, fedeltà (monogamia) e preservativi.

Lo stesso presidente ugandese dichiarò:

«Ci dicono che tra noi e la distruzione del nostro continente c’è solamente un sottile strato di gomma (…) i preservativi non possono diventare il mezzo principale per fermare il corso dell’AIDS.»

Tutti gli studi successivi hanno poi ampiamente dimostrato che la vera forza del programma è stata la diffusione dei primi due messaggi, molto più efficienti in quanto comportamenti che una volta acquisiti danno più garanzia di essere costanti, mentre l’assenza del preservativo, raramente è motivo di astinenza dagli atti sessuali.

Insomma, in buona sostanza, vi sto dicendo che il mondo si è scandalizzato per un mero punto di impegno ideologico, quando nel 2009 Benedetto XVI ha dichiarato che il preservativo non è la soluzione e che puntare solo su di esso voleva dire aggravare il problema.

« …direi che non si può superare questo problema dell’Aids solo con i soldi, che sono necessari, ma se non c’è l’anima che sa applicarli, non aiutano; non si può superare con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema.»

Il Papa infatti aveva probabilmente letto la relazione del 2001 del prof. Peter Piot, direttore del programma anti-AIDS dell’Onu, che spiegava appunto il successo del programma ugandese.
Oppure aveva sentito parlare di Rand L. Stoneburner e di Daniel Low-Beer che nel 2004 confermarono che senza astinenza e fedeltà, il programma sarebbe fallito.
O forse aveva incontrato il Dr. Edward Gree, antropologo dell’Università di Harvard ed esperto sul programma ugandese contro l’AIDS, secondo il quale la fedeltà al proprio partner è il fattore più importante del programma.

Il Papa si era sostanzialmente fidato di quella scienza che tutto tollera, tranne che il Papa le dia ragione.

Pubblicato su La Croce del 09 maggio 2015

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