Giuda, Pietro e noi.

A volte capita di parlare con qualcuno che ha attraversato un calvario personale, o che magari ci è ancora dentro con i piedi e con il capo, che mi racconta quanto male faccia comprendere il peccato che ha commesso. Prendere atto della propria iniquità, paragonato all’infinito amore per tutti, che Gesù ha irradiato dalla croce, quando ci ha perdonati perché non siamo in grado di capire quello che facciamo, è qualcosa di infinitamente umiliante. Fa sentire indegni di tutto.

Una paura è quella di essere destinati a fare la fine di Giuda Iscariota, indicata come la fine del traditore per eccellenza. Nel pensiero comune (probabilmente grazie alla convergenza di più fattori: catechismo approssimativo; cultura cinematografica; dura cervice; gnostica convenienza) c’è infatti l’idea che il problema di Giuda sia stato il tradimento.
In realtà non è proprio così e, al di là di tutti i problemi teologici che derivano dal paradosso che si configura trattando del “tradimento di Dio”, è necessario dire che se Giuda è all’inferno, c’è per tutt’altri motivi, non certo perché ha tradito Gesù.

Giuda Iscariota, oltre che uno dei dodici apostoli, era una figura con una forte impronta politica e un forte desiderio di rivalsa sui romani, alcune notizie lo dipingono come uno che ha insistito per diventare discepolo e che Gesù, conoscendo il suo destino e il ruolo di Giuda in questo, lo abbia invitato a riflettere  molto prima di accoglierlo tra i suoi.

Tra i dodici era quello destinato al lavoro meno adatto ad uno in odore di tradimento. Tenere la cassa era di certo un forte richiamo per il suo fragile spirito, difatti era risaputo che attingeva ai fondi comuni per scopi personali; di questo i discepoli si lamentavano con Gesù.
Gli scopi personali di Giuda molto probabilmente erano legati alla sua attività di contrasto politico alla dominazione dei romani. I’idea che lui si sia legato a quello che credeva essere il Re terreno dei giudei per vincere l’oppressore è decisamente più che un sospetto.

Giuda infatti aveva chiaro che Cristo era il Messia, non poteva dubitarne, non avrebbe mai mandato a morire un innocente, comunque non avrebbe mai sacrificato inutilmente la vita di Gesù se avesse avuto il sospetto che fosse stato un millantatore, un bugiardo o anche solamente un profeta.

Il suo tradimento infatti nasceva da un desiderio e si nutriva di una certezza: il desiderio era quello di ridare splendore e potenza a Israele, liberare il popolo di Davide dal giogo di Tiberio Claudio Nerone e ricacciare i romani; la certezza era che con la potenza del figlio di Dio, avrebbe di sicuro vinto.

Se Giuda pur avendo capito la natura di Gesù, non ne aveva compreso i metodi, lo stesso non si può dire di Pietro, che era stato richiamato alla mitezza dallo stesso Gesù, nell’orto del Getsemani poche ore prima della sua crocifissione.
Pietro era stato già indicato come futura guida della Chiesa, era stato messo al corrente del destino di Gesù e aveva perfino giurato di difenderlo. Sapeva che Gesù non si sarebbe sottratto alla sua sorte e sapeva che da quello sarebbe arrivata la salvezza per il creato. Sapeva che la Fede salva, non la ribellione o la lotta.

Eppure anche Pietro tradisce.

Tradisce più volte il suo Signore, nega contatti con i discepoli, impreca contro chi lo accusa e maledice tutto ciò per cui fino a poco prima ha lottato. Non è una delazione come quella di Giuda, convinto che possa solo essere uno sprone per Gesù a dispiegare la sua potenza. Pietro rinnega tutto se stesso, la sua vita, il suo passato, il suo futuro. Si annienta negando la sua fede. Senza Cristo lui non sarebbe più potuto essere nessuno, né il pastore delle sue pecorelle, né un pescatore di uomini.
Come Giuda avrebbe avuto davanti solo la prospettiva della fine della sua esistenza, se non fosse sopraggiunto il canto del gallo, risveglio della coscienza.

Eccola la vera differenza tra Giuda e Pietro, il risveglio della coscienza che ci permette di percepire la legge divina che Dio ci ha impresso nel cuore. Pietro quando si rende conto che Gesù morirà per salvare il mondo, si vergognerà delle sue azioni, piangerà amaramente il suo tradimento, ma verrà salvato dalla fede. Alzerà la testa al cielo e tornerà in sé, assumendo il ruolo di guida degli altri apostoli, dando vita alla Chiesa corpo mistico di Cristo.

Giuda invece confidava nell’attività del Cristo divino, che avrebbe spazzato via gli oppositori come le acque del Mar Rosso, non nel Cristo uomo, che solo facendosi ultimo servitore, diventa salvifico. Aveva riposto le speranze nella reazione potente e non nella sottomissione umile. Per questo quando ha compreso che sarebbe stato ucciso, il suo fallimento gli è apparso totale, come discepolo e come uomo. Per lui nessun gallo ha cantato, e se ha lo ha fatto, lui non ha sentito.

Se avesse avuto la capacità di comprendere di aver tradito l’uomo, forse sarebbe stato capace, come Pietro, di scuotersi, ma lui aveva tradito Dio, solo Dio, e Dio era morto. Che senso ha continuare a vivere se anche Dio può morire?
Ecco perché Giuda è differente da Pietro e da noi, traditori quotidiani di Gesù, perché Giuda non ha capito che a Gesù non importava essere stato tradito e ucciso, importava che fosse stato compreso che sarebbe risorto.

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