Sei cattivo? Curati!

Si fa un altro passo verso la tetra profezia di Huxley: il tolcapone amplifica gli effetti della dopamina e dovrebbe perciò disporci meglio nei confronti del prossimo. Fa piacere che ci si arrenda al fatto che non si può essere felici senza essere buoni, ma la cattiveria e il suo contrario non sono questione di chimica.

Ho letto sul giornale che in California hanno inventato la pillola della bontà, un farmaco a base di tolcapone (?) che prolunga gli effetti della dopamina nel cervello e quindi ci fa sentire più compassionevoli e ben disposti verso il prossimo.

Mi domando come mai, tra tutti farmaci che potevano essere sintetizzate dalle multinazionali case farmaceutiche per curare malanni fisici e psichici qualcuno abbia deciso di concentrare sforzi ed investimenti proprio per trovare qualcosa che ci renda più buoni.

In realtà la risposta è molto semplice ed immediata, ciascuno può trovarla dentro di sè: noi vogliamo essere buoni. Fin da bambini, ciascuno cerca di migliorare se stesso per avere l’approvazione dei genitori in primis, poi degli amici, del partner, dei colleghi, insomma, di tutte le persone con cui capita di avere a che fare. Siamo lacerati dal bisogno di essere approvati, accolti, giustificati e in questa nostra continua tensione viviamo cadute rovinose e prodigiose risalite. L’essenza di tutto questo nostro affannarci, però, sta racchiuso nella fatica che nel nostro cammino dobbiamo sopportare.

Nell’attuale mondo abitato solo da individualismi egoisti ed egocentrici, la parola fatica non la vuole sentire più nessuno: molte sono le teorie più o meno articolate, più o meno coordinate, che hanno come primario obiettivo quello di giustificare le nostre azioni istintive, quelle che sono frutto dei più primordiali e biechi istinti e non il risultato di una ponderazione. Così tutto diventa non solo lecito, ma normale, giusto, approvato dalla comunità intera. Se ti va, si può fare.

Peccato che queste filosofie mortifere non tengano conto di un fatto imprescindibile: l’uomo è un essere sociale, cioè per trovare se stesso deve specchiarsi negli occhi di un altro, per essere felice ha bisogno di essere amato, per realizzarsi ha bisogno di sentirsi utile a qualcuno.

Se però siamo ormai abituati all’egoismo più sfrenato, ogni occasione di incontro col nostro prossimo diventa teatro di uno scontro tra la nostra libertà di fare quello che ci pare e la sua libertà di fare altrettanto. Senza più confini e limiti condivisi, ciascuno ha bisogno di un enorme spazio di manovra intorno a sè per non interferire con nessuno. Ecco allora che ci troviamo a dover scegliere tra una tranquilla solitudine in cui possiamo dare sfogo ai nostri istinti e vivere schiavi delle nostre pulsioni, senza freni e confini oppure una difficile convivenza con il nostro prossimo, fatta di compromessi, di autolimitazioni, di compressione e trasformazione di se stessi che ci permettano di avvicinarci senza generare conflitti.

In realtà è una finta scelta: il nostro cuore ogni giorno ci spinge a cercare l’altro, ci proietta nel mondo affamandoci di relazione, ci mette di fronte alla nuda verità che della libertà di fare come ci pare non sappiamo cosa farcene se non possiamo condividere le nostre emozioni, belle o brutte che siano, con qualcuno. E questa lapalissiana verità la sanno anche i difensori e promotori delle teorie mortifere di cui sopra. Dunque ecco l’invezione del secolo: la pillola che ci fa diventare buoni senza fare fatica.

Eggià, perché il problema è sempre quella brutta parola lì: fatica (che poi i cristiani la chiamano croce). Tutti vogliono amici, amore e relazioni, anche i bulli che menano e insultano, solo che alcuni pensano di non sopportare la fatica che ciò comporta, credono che il premio di tale sforzo non sia sufficiente a giustificarlo, o semplicemente non ce la fanno. Quanto è consolatorio pensare che se non sono buono è perché ho poca dopamina nel mio cervello! La cattiveria dunque è una malattia, una cosa di cui non ho la colpa (altra parolaccia che proprio non si può pronunciare) e che, all’occorrenza, si può curare ingoiando la pastiglietta. Mi sento solo? Mangio la pastiglia e vado al bar a fare quattro chiacchiere con gli avventori: di sicuro l’empatia indotta mi aiuterà a creare relazioni. Oggi invece ho voglia di abbrutirmi guardando sconcerie su internet? Non c’è problema, tanto posso tornare buono e tranquillo quando voglio, non sono tenuto a fare il quotidiano lavoro di contenimento di me stesso, l’orribile fatica di non abbassare la guardia.

Di fondo c’è l’autoassoluzione dell’umanità di fronte alle proprie brutture e la ricerca di una scorciatoia per avere in modo sintetico quello che naturalmente possiamo ottenere solo con sforzo. Basterebbe in realtà dire in quali circostanze la nostra corteccia cerebrale produce questa benedetta dopamina: sono gli stimoli che creano motivazione e ricompensa ad innescare il meccanismo. Cioè lo sguardo amoroso di qualcuno, un “bravo”, una pacca sulla spalla, un bacio o un abbraccio. Il prossimo che ti viene incontro ti fa stare bene, ti fa sentire felice e tu a tua volta diventi ben disposto verso gli altri. E’ il significato del precetto “ama il tuo nemico”: non è autolesionismo, è la spiegazione di come funziona l’umanità. I conflitti non si smontano aggredendo, ma amando.

Ciascuno di noi è a volte amabile, a volte insopportabile; siamo sia colui che ama, sia colui che, pur nemico, ha bisogno essere amato per sbloccarsi. L’umanità intera migliorerebbe rapidamente se ogni persona facesse lo sforzo, anche solo una volta al giorno, di non aggredire chi in quel momento ci sta pestando i calli, perché tanti piccoli sforzi fanno una grande azione, tanti insignificanti gesti fanno una sconvolgente coreografia.

Quindi adesso chiudo l’articolo e faccio una telefonata ad un amico con cui ho un po’ litigato, anche se non mi va proprio: non lo faccio perché ho preso la pillola della bontà, ma perché mi fido di Cristo che mi ha detto che così aumenta la dopamina del mio cervello e divento felice (non ha usato proprio queste esatte parole, ma se si fosse incarnato ai giorni nostri secondo me l’avrebbe detto).

Pubblicato su La Croce del 26 marzo 2015

Trillian Written by:

Trillian è una giovane donna e una brillante astrofisica che Arthur Dent non riesce ad "abbordare" ad un party in un appartamento ad Islington. Arthur era sufficientemente certo che si trattasse di una giovane donna, ma all'epoca era totalmente ignaro delle sue nozioni accademiche. Trillian da l'impressione di essere timida e titubante e le fa piacere che chi le sta intorno lo creda, ma in fondo ha un profondo desiderio di fare qualcosa che salvi la galassia.

One Comment

  1. Cristina
    8 Aprile 2015
    Reply

    eccerto! da ora in poi agli assassini, ai terroristi, e a tutti i delinquenti invece del processo e della punizione precriveranno una cura di queste pastigliette, in maniera da sopperire anche al problema del sovraccarico delle carceri e alle lungaggini dei processi!

Rispondi