Imparare a dire sì

Ho fatto un sogno, uno di quelli che poi ti svegliano di soprassalto a metà della notte, perché il tuo inconscio vuole che te lo ricordi, che lo capisci, che lo fissi consapevolmente dentro di te.

Ho sognato che ero al lavoro (controllo di gestione in azienda metalmeccanica, tanto per capirci) e si presentava a chiedere un impiego un bifolco sulla cinquantina. Ma non chiedeva semplicemente un posto, bensì voleva un pezzo di terra da coltivare in autonomia. E non è che lo chiedeva, lo pretendeva. Allora io, invece di fargli notare che l’agricoltura con la metalmeccanica c’entra poco assai, mi sono lanciata in una descrizione meticolosa di quanto sia duro e carico di responsabilità anche il lavoro dell’agricoltore, con investimenti da fare in macchinari e impianti, esposizione finanziaria che dura un anno, esiti incerti sempre legati al clima, per cercare di convincerlo che autogestirsi un appezzamento non era un desiderio intelligente. Ma a lui dei miei ragionamenti non fregava nulla.

– So che ce l’avete la terra: datemene un pezzo! – diceva.

E io dentro di me pensavo che era vero, che la terra c’era, ma non era nelle mie disponibilità. Avrei dovuto convicere il capo a cederla a questo buzzurro sconosciuto e poco affidabile. Perché mai mi sarei dovuta preoccupare per costui? E poi intorno a noi era pieno di aziende agricole: ma proprio in una metalmeccanica doveva venire a cercare terra?

Così ho detto che non potevo fare nulla per lui, e lo strano soggetto se n’è andato infuriato, lasciando a terra una scatola vuota. Quando me ne sono accorta, l’ho raccolta e sono corsa fuori per restituirgliela, ma lui era già sparito. Sono rientrata con la scatola in mano, passando attraverso la folla radunata di tutti gli operai che mi guardavano con lieve disappunto. Mi sono chiusa nell’ufficio con la scatola e ho pensato che invece avrei potuto, avrei dovuto dargli ciò che chiedeva. Qualcosa fuori dalla mia disponibilità personale, ma comunque ottenibile con un po’ di persuasione, per un progetto in cui non credevo, ma in cui credeva lui, in un ambito fuori dal mio lavoro, ma sempre nelle mie competenze pesonali.

Un’amarezza profonda mi ha invaso, di fronte alla sensazione di aver perso un’occasione, di non aver fatto il mio dovere, tanto che mi sono svegliata angosciata.

In questo sogno bislacco è nascosta la spiegazione di come funziona il mio cervello e, presumibilmente, anche quello di molti altri. La vita ci propone di continuo stimoli fuori tema, ci chiede cose che non sappiamo fare, ci presenta bisogni che crediamo di non poter soddisfare. E chi ci provoca spesso non è per niente amabile, convincente o persuasivo. Facilmente ci proteggiamo archiviando le richieste come al di fuori delle nostre possibilità e tiriamo dritto per la nostra strada. Ma in fondo in fondo sappiamo che qualcosa possiamo sempre fare, o che ci possiamo provare.

Chi sta attorno a noi è disposto a scusarci per la nostra indolenza, anche perché in fondo è un atteggiamento comprensibile quello di proteggersi un po’ dal bombardamento di mani che chiedono. Ma siamo noi che non ci scusiamo. Abbiamo un potenziale inespresso, delle risorse nascoste, una riserva di capacità mai messe a disposizione di nessuno. Lo sappiamo in fondo e lo schermirsi non è modestia, bensì pigrizia, vigliaccheria, ignavia.

E’ per questo che cerco di non dire mai di no, anche quando l’agenda diventa così fitta da non lasciar intravvedere il bianco delle pagine. Io lo so che ogni rifiuto è una sconfitta che mi brucerà dentro a lungo, un trauma che non supererò mai davvero.

Me li ricordo tutti i no che ho detto: sono lì in fila, tra le occasioni perdute, le sfide perse a tavolino. Si va dalle cose grosse, come l’esame di dottorato mai dato, a quelle piccole, come quella veglia col vescovo in cui avrei dovuto cantare. C’è la mendicante sdentata che ha suonato alla porta ed io non ho aperto, l’amica che ha chiesto un consiglio fiscale e io le ho passato il numero di un commercialista, l’insegnate di yoga che mi ha esposto il suo progetto per l’associazione e io non gli ho offerto l’aiuto di cui aveva bisogno.

I sì invece sono passati via veloci, come acqua che scorre, anche quando mi sono costati fatica e sudore, anche quando non ho raggiunto i risultati sperati, anche quando ho detto di essermi pentita di averli pronunciati.

Tutto quello che sono e che so dipende dai sì che ho saputo dire, soprattutto quando erano talmente fuori tema da costringermi a studiare, approfondire, spremermi per davvero in profondità per arrivare da qualche parte. E conosco moltissime persone che sono diventate punti di riferimento per tanti solo perché si sono lasciati tirare per la giacca e hanno cercato di dire il loro piccolo sì ogni giorno, con perseveranza e illogicità.

Madre Teresa era una di quelle che sapeva dire sì e sapeva anche provocare gli altri, chiedendo senza pudore: tu, adesso, aiutami a fare questa cosa, così. Un giorno un giornalista andò da lei per intervistarla e la trovò accanto ad un moribondo; Madre Teresa gli diede il cucchiaio in mano e gli intimò di imboccare l’uomo, e di farlo con amore. Lui lo fece e non ebbe bisogno di finire l’intervista per sapere cosa scrivere.

Don Oreste Benzi era un altro di quelli che domandava l’impossibile: un giorno disse che voleva costruire un villaggio dove far abitare famiglie in difficoltà accanto a famiglie che le guidassero e le seguissero nel loro percorso di riabilitazione. Almeno 10 alloggi, tanto verde, spazio giochi. I suoi della comunità lo guardarono con occhi sgranati: con quali soldi si sarebbe dovuto fare? Ma lui disse di cominciare col progetto e poi, chiedendo aiuto in giro, si sarebbe potuto fare. E infatti oggi il Villaggio della Gioia esiste e sta proprio vicino a casa mia. Chi ci abita non sa spiegare quante mani, quanti cuori hanno collaborato, quanta gente non si è sottratta e ha partecipato, detto il suo sì, dato il suo contributo, donando o lavorando.

Non si può essere uomini da soli, egocentrici ed egoisti. Se qualcuno non ti chiede di fare quel passo in più che di tua iniziativa non faresti mai, resti sempre nello stesso posto, nello stesso modo, nella stessa gabbia. Bisogna imparare a dire sì semplicemente a quello che ci viene chiesto, che sia aiutare a fare i cappelletti per la festa del paese, o preparare un banchetto di raccolta firme per una petizione, o dare ripetizioni di matematica all’amica della figlia e lezioni di canto alla vicina. Dire sì anche se non siamo bravissimi, anche se c’è chi lo farebbe meglio. Dire sì anche se non ci sono applausi da prendere, anche se si rischia di fallire. Dire sì adesso, qui, subito.  E magari anche chiedere, perché provocare al bene è faticoso, a volte umiliante, ma necessario, per noi che non abbiamo il mondo in mano e per chi coinvolgiamo, che ha bisogno di essere spronato a migliorarsi.

Quella scatola vuota, rimasta tra le mie mani nel sogno, va riempita di buona volontà e di coraggio. Per il momento ci metto dentro i miei propositi per il futuro e un pizzico di consapevolezza in più sul cammino da seguire.

Trillian Written by:

Trillian è una giovane donna e una brillante astrofisica che Arthur Dent non riesce ad "abbordare" ad un party in un appartamento ad Islington. Arthur era sufficientemente certo che si trattasse di una giovane donna, ma all'epoca era totalmente ignaro delle sue nozioni accademiche. Trillian da l'impressione di essere timida e titubante e le fa piacere che chi le sta intorno lo creda, ma in fondo ha un profondo desiderio di fare qualcosa che salvi la galassia.

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